Casa Batlló di Antoni Gaudì è uno dei capolavori indiscussi dell’Architettura. Costruita a partire dal 1904, come risistemazione per un ricco industriale catalano, lungo il cosiddetto “isolato della discordia” sul Passeig de Gràcia, è stata dichiarata patrimonio dell’Umanità Unesco nel 2005. Ormai diventata Museo, da tempo necessitava una razionalizzazione del sistema distributivo verticale, anche per ragioni di sicurezza oltre che per ampliare gli spazi espositivi ai livelli più bassi. L’intervento di Kengo Kuma, elegante e dialogico con quello di Gaudì, diventa un nuovo capitolo, contemporaneo nella vita di quest’opera celeberrima. Per chiunque ne abbia fatto esperienza lo stile evocativo del maestro catalano, onirico, ricco di richiami naturalistici, è esaltato dalla luce mediterranea. Il cielo blu si riflette e riverbera nelle scaglie di ceramica della facciata interna del patio e della copertura. La luce viene portata verso il basso proprio dalla corte centrale che Gaudì realizzò nel suo primo progetto di risistemazione. La ceramica ha una tonalità digradante (cobalto e blu marino intenso ai piani alti e via via più tenue sino al celeste verso terra) in modo che chi guarda verso l’alto abbia la sensazione di tuffarsi nel mare profondo. Kuma parte proprio da questa lettura: il legame con Gaudì è la luce. La materia con cui costruire sono i fotoni luminosi che si riflettono e riverberano nella sinuosa cascata di catenelle di alluminio che dispone lungo i volumi interni della nuova scala, che connette i livelli dalla copertura sino al secondo interrato. Quest’ultimo spazio ospitava il deposito di carbone mentre oggi diviene nuova superficie espositiva di circa 260 m2, fondamentale per le attività museali ricettive. Il maestro giapponese opta per un’interpretazione astratta del segno stilistico Art Nouveau e modernista catalano, ricco di tocco artigianale, grazie al posizionamento di elementi ricorsivi, metallici, di produzione industriale ma posati secondo un’artigianalità evidente, da pezzo unico, da opera d’arte. Ricordiamo che Gaudì per Casa Batlló si riferì all’allegoria di San Jordi che sconfigge il Drago e che la morfologia dell’edificio richiama fortemente questa simbologia (nella scelta dialettica dell’impiego di catenelle di alluminio potremmo anche vedere la “maglia di ferro” dell’armatura di San Giorgio).
In ogni caso il potere unificante è la luce e la sua evocazione per cui potremmo parlare di “inscape” anche con riflessioni psicoanalitiche a cui Gaudì chiaramente guardava. Ricordiamo che era il periodo in cui Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne spingeva l’immaginario verso spazi abissali, grotte illuminate da una luce “eburnea” come Juan Josè Lahuerta dice delle sale di Casa Batllò, dove le stanze sono raccordate da scale come fossero spine dorsali di dinosauri e con corrimani “tentacolari” in legno scolpito. Mentre nella corte a tinte blu di Gaudì ci si “inabissa” cromaticamente andando verso l’alto (come sempre ricorda Lauherta) nel nuovo sistema connettivo di Kengo Kuma, dove una scala in marmo nero a conci “vertebrali” rimanda alle immagini descritte prima, l’effetto è di una perenne cascata di luce zenitale, fino all’antro profondo, il “centro della terra” sempre per citare Verne, che ospitava la carbonaia e che ora dà nuovo slancio agli spazi museali. Le catenelle di alluminio di Kuma paiono dissolversi ai propri estremi, sono fili di diversa lunghezza, progettati parametricamente, che definiscono bordi sinuosi, come onde del mare, come reti da pesca, squame di pesce di grana infinitesima rispetto a quelle più evidenti, storiche, di ceramica blu. L’illuminazione zenitale naturale, combinata a quella artificiale, contribuisce a smaterializzare gli elementi di alluminio che paiono dei puri riflessi acquatici. Letteralmente una “cascata luminosa” che “gocciola” dall’alto, rimbalzando e scivolando verso il basso, verso l’interrato cieco (in totale sono otto livelli) a cui si accede grazie al gradiente luminoso, senza segnaletica. Gottfried Semper diceva che la prima architettura (dopo il ventre materno potremmo aggiungere), di cui le donne e gli uomini fanno esperienza, sono i vestiti; uno scudo protettivo dal clima esterno, dalle intemperie. La relazione tra struttura e involucro, potremmo dire “pelle”, di un edificio è da sempre un tema molto dibattuto in architettura e per Kengo Kuma questo ha portato a un concetto originale. Nella sua ricerca, involucro architettonico e struttura diventano spesso una sola cosa e sono in equilibrio compositivo/tettonico, proprio come la trama e l’ordito di un tessuto. Lo spazio e le superfici architettoniche sono il frutto di una “disintegrazione” di elementi che Kuma chiama “particelle”. Quando, nel nostro caso, la particella rigida di alluminio viene riscaldata diviene soffice e morbida e viene deformata creando una catena continua, con maggior grado di libertà nello spazio; così da una sottile asta rigida di metallo si ottiene una fune flessuosa, un filo intrecciato che compone una maglia multipla ed effimera. Le catenelle di alluminio di Kriskadecor sono esaltate dal progetto di luce artificiale di Mario Nanni (Viabizzuno) che dialoga in maniera dialettica con la luce zenitale naturale. Questa “particellizzazione” dell’architettura, fatta di frammenti armonici che creano un’unità compositiva, genera “onomatopee architettoniche sensibili” che Kengo utilizza spesso per descrivere le sue scelte architettoniche (come mostrato nella personale a lui dedicata durante l’ultima Biennale di Venezia, presso Palazzo Franchetti).
Nell’atrio e lungo le scale di Casa Batlló utilizza l’onomatopea Moja Moja, che richiama i concetti di “onda e filo” e si materializza nell’onda multipla sospesa, copre pareti e soffitto ed è definita da 164.000 metri lineari di catenelle di alluminio. Queste creano una mesh eterea e luccicante che dialoga con le forme organiche pensate da Gaudì. La luce zenitale viene condotta verso il basso dai riflessi generati sul metallo: una “pioggia” di luce che adorna anche tutta la scala di sicurezza sino alla copertura dell’edificio. Questa sorta di tenda metallica, fatta di particelle minime che unite definiscono catene in grado di formare onde voluttuose, adorna anche l’atrio e la nuova scala nera che connette il piano terra ai nuovi spazi espositivi ricavati nell’ex dcarbonaia del piano interrato. Le onde di Moja Moja, definite dalle catenelle, catturano la luce come fossero reti da pesca e per Kengo Kuma usare un solo materiale è stato fondamentale per parlare di luce e solamente di luce attraverso l’onomatopea. In definitiva la fluidità dell’onda luminosa, elettromagnetica, velocissima si fa condurre da una maglia d’alluminio che precipita verso il basso, sospesa a gravità, quasi ad arrivare al fondo del mare, alla dimensione intima della “grotta architettonica” di Gaudì dove vi è “l’origine della vita nel liquido amniotico del fondo del mare” (Lahuerta). La grotta sottomarina, che Gaudì rappresentò così bene nelle superfici, nelle aperture e nelle scelte morfologiche di fluidità, in quelle materiche e cromatiche (dominanti sono sempre il blu navy, cobalto, celeste, indaco e via dicendo). Riuscì così a materializzare una casa “neurotica” fatta di stimoli multipli che ricorda un acquario o anche il Nautilus di Capitano Nemo. Kengo Kuma proietta il visitatore in queste misteriose profondità neuro-spaziali, smaterializzando la scelta materica e creando visioni proprie, in totale assonanza e rispetto di Gaudì ma senza rinunciare alla propria legittima e contemporanea volontà espressiva. Quest’opera “di luce” è stata realizzata tra il 2019 e il 2021, in piena pandemia ed è sicuramente un’espressione di architettura vitale e di rinascita, in grado di esaltare ulteriormente gli splendidi spazi e volumi di Casa Batllò.
Scheda progetto
Client: Casa Batlló S.L.U.
Project management: Casa Batlló
Design team: Javier Villar, Jaime Fernández Calvache, Gorka Beita Zarandona, David Minton Albero, Mila Dimitrovska, Kimio Suzuki (CG)
Photos: Imagensubliminal (Miguel De Guzman + Rocio Romero)