Nel 1934 Marcello Nizzoli ed Edoardo Persico progettano l’allestimento per la Sala delle Medaglie d’oro, alla Mostra dell’Aeronautica di Milano, definendo uno spazio tridimensionale costituito da un sistema lineare, una griglia spaziale bianca, capace di decostruire e, contemporaneamente, riassemblare la spazialità della sala espositiva, dando un significato al vuoto più che al pieno, tracciandolo matematicamente e geometricamente. È uno dei primi esempi di uso di un sistema a griglia, che accoglie le nuove istanze della modernità entro una spazialità leggera, ma, contemporaneamente, densa: permette di osservare il mondo attraverso piani di lettura trasparenti, che mettono sullo stesso piano gli oggetti esposti e lo sfondo, una maniera di lettura che pare raccontare già della contemporaneità, del multiverso, degli strati di significato sovrapposti. È forse per questa complessità intrinseca che sistemi spaziali di questo tipo riescono a fornire un supporto architettonico alle esplorazioni più radicali che appaiono verso la fine degli anni Sessanta del 900, quando emergono sulla scena internazionale progettisti come Cedric Price, Archizoom, Archigram. Gli inglesi, in particolare, in una folle corsa durata poco meno di dieci anni, danno corpo a universi alternativi, costruiti attraverso una architettura a-storica, senza riferimenti classici, più legata al mondo del fumetto che del trattato, progettando la comunicazione più della costruzione, ribaltando il punto di vista, accogliendo il brutto, il disordinato, il tecnologico. Disegnano le nuove Città Ideali, luoghi nei quali le macchine prendono il sopravvento sulle persone, o, meglio, nei quali l’interazione uomo-macchina diventa per la prima volta fondamento di uno spazio architettonico, anticipando di decenni le istanze della contemporaneità. I complessi disegni sono spesso retti da sistemi leggeri, come in Plug-in City, delle strutture lineari che ricordano la griglia tridimensionale di Nizzoli e Persico: si tratta di dispositivi trasparenti, che sembrano opporre un ordine geometrico al caotico disordine macchinico delle visioni urbane. Sono dei sotto-testi, o, meglio, dei sovra-testi, che paiono mettere in fila i ragionamenti del gruppo inglese, costruendo delle filigrane sulle quali le nuove città possono evolversi, crescere, costruire i nuovi mondi. Anticipano, in una certa maniera, la logica dell’ipertesto, permettendo una sovrapposizione di sensi, un rimando tra due tipi di spazio, in tensione fra di loro, ma anche in continuo rimando e relazione. Sono mondi che necessitano di un alter ego reciproco, una doppia faccia che completa l’insieme, come nei progetti di Ken Isaacs, ancora alla fine degli anni Sessanta, che, attraverso le Living Structures e le Micro Houses, diminuisce la scala degli Archigram, la fa entrare nelle dimensioni domestiche, ma ne mantiene la complessità: il progettista statunitense decostruisce l’edificio-casa, estrae la struttura, trasformandola nel palinsesto regolatore dello spazio domestico; anche in questo caso si affrontano due mondi, due geometrie, come in Nizzoli e Persico: la griglia tridimensionale, fatta di linee, e le superficie piene, che racchiudono gli ambienti. La struttura leggera, fatta perlopiù di tubolari metallici, acquisisce forme differenti, è un organismo vivo capace di adattarsi alle differenti esigenze, o forse è capace di modificare le richieste funzionali attraverso la sua forma.
SPAZI PUBBLICI DISASSEMBLATI A LONDRA
Questo doppio registro è proposto anche da Jan Kattein Architects in Edbury Edge, un progetto che accompagna la rigenerazione urbana di Edbury Bridge Estate, promossa da Westminster City Council e inaugurato ad Aprile 2021: si tratta di un complesso costituito da una serie di laboratori distribuiti su due livelli, un bar e una hall aperta alla comunità; un progetto che pare prendere a piene mani da quella stagione radicale della fine degli anni ‘60, durante i quali l’architettura diventava un grande meccanismo urbano, forse caotico, ma sorretto da trame geometriche ordinatrici. All’interno di un lotto delimitato da edifici eterogenei, il progetto si sviluppa come parte di un giardino pubblico di piccola scala, divenendo un nodo pubblico attorno al quale possono ruotare le vicende della comunità locale: in parte verde, in parte minerale, il suolo pare dividere il lotto esattamente a metà, come a costituire un primo equilibrio tra naturale e artificiale. Nella parte minerale l’edificio è costituito da due parti in dialogo tra di loro, che riportano al binomio fra la griglia e la superficie: in questo caso la relazione è quasi oppositiva, le due parti non si sovrappongono, ma cercano di costruire identità proprie, evidenziando le proprie caratteristiche; da un lato gli edifici che racchiudono le funzioni interne, dall’altro la struttura a tubolari metallici che funge da elemento distributivo. Sembrano due mondi che si sfiorano, tessendo ognuno le proprie trame spaziali, ma la griglia metallica riesce a prendere il sopravvento arrampicandosi sopra i tetti, opponendosi alle forme inclinate dei tetti stessi, ricostituendo un parallelepipedo ideale. E poi, ancora, autodistruggendo il solido creato con una torre di segnalazione, un elemento che chiama a raccolta la comunità, che segnala la presenza degli spazi, delle funzioni racchiuse. Il dialogo, allora, diventa più fertile in questo sistema complesso di rimandi e letture, che si ingigantisce sommando nuove caratteristiche: i colori vivi degli edifici, che ricordano l’ironia fumettosa degli Archigram; i rivestimenti in scaglie con differenti giaciture; le finestre posizionate quasi casualmente, di misure differenti; i frame metallici tipici dei ponteggi, che sembrano rimandare a una impellente temporaneità. Sembra, in una certa maniera, che il progetto cerchi fortemente di richiamare un ricordo giocoso nei suoi frequentatori, un’attenzione al dettaglio che fa scoprire continue viste inedite, a suggerire un’esplorazione dello spazio. La griglia metallica, poi, estende la spazialità degli interni verso il fuori, verso lo spazio pubblico aperto, costruendo un layer aggiuntivo nel vuoto aperto della città, una struttura di attracco per le persone e, in futuro, per la natura, integrando la diversità naturale all’interno dell’artificialità architettonica. Anche gli interni giocano su due registri: più sobri gli spazi dei laboratori, più esplosivi quelli degli spazi comuni, nei quali si ritrova un’idea di struttura esibita: in questo caso è il soffitto, costituito da una serie di capriate sottili ma molto fitte, che fanno perdere lo sguardo in un complesso universo ligneo, senza possibilità di traguardare un punto fisso. Lo spazio pubblico della città, così, ritrova quella complessità di lettura che osservavamo nei progetti di Nizzoli e Persico, nei folli universi degli Archigram, nell’equilibrio domestico di Ken Isaacs: anche qui il dispositivo “architettura” è un mezzo per aumentare le possibilità del tessuto urbano, per amalgamare i tanti caratteri che possiede la città, facendoli poi focalizzare in un punto, in un ambiente. Fuori e dentro, leggero e pesante, mono-tono e colorato, opaco e trasparente, geometrico e casuale: sono elementi che si compenetrano, per restituire un’unità disassemblata alla comunità urbana, fertile luogo di equilibrio instabile.
UN SISTEMA APERTO E FLESSIBILE
Il progetto di Jan Kattein Architects e ARUP esprime in forme e materiali la sua temporaneità, evidenziando il dato, appunto, temporale attraverso una forma di costruzione che la renda evidente, senza diminuire il comfort interno ed esterno. Il complesso di edifici e spazi aperti, così, tende a minimizzare l’impatto della costruzione all’interno dello spazio pubblico, immaginando un sistema aperto e flessibile e, soprattutto, ripetibile: l’idea principale, infatti, è di considerare il progetto come un dispositivo spaziale e sociale, che, svolto il suo compito in un luogo, possa essere smantellato e ricostruito in un’altra posizione, definendo nuove relazioni, connettendo un tessuto esistente, favorendo le funzioni comunitarie. Si potrebbe quasi pensare che l’edificio sia una sorta di grande arredo urbano, che appare a seguito di necessità conclamate, attuando in rapidità, dando forma allo spazio con una limitata quantità di risorse. In questo senso la costruzione avviene principalmente a secco lasciando alle fondazioni lineari la presenza di calcestruzzo: a queste gli edifici si agganciano attraverso un sistema di travi metalliche, il cui uso è, anche in questo caso, limitato a posizioni puntuali, preferendo un sistema costruttivo prevalentemente di legno. Gli edifici sono in effetti costituiti da un assemblaggio di pannelli di legno, OSB o WBP, o di pannelli di cartongesso Fermacell, per le finiture interne. All’interno dei pannelli, sistemi di travetti lignei sono posizionati a strati perpendicolari, costruendo dei sandwich strutturali. Il sistema costruttivo è sviluppato sulle pareti e, in estrema coerenza, sui tetti, sottolineando, soprattutto nella parte di bar e auditorio, un’idea di continuità del volume, come se questo nascesse dalla piegatura di un’unica superficie. L’isolamento, termico e acustico, è garantito da spessori consistenti di lana di roccia, che lavorano insieme alle varie membrane per eliminare i fenomeni di condensa e garantire nel contempo l’impermeabilizzazione. La struttura tubolare esterna si appoggia in alcuni punti agli edifici ma il sistema strutturale è studiato per mantenere una certa indipendenza, così che i due corpi reagiscano alle forze in gioco connaturatamente alle proprie caratteristiche costruttive.
Scheda progetto
Architects: Jan Kattein Architects
Architects Structural, m&e, civil engineering, planning consultant: ARUP Contractor: H A Marks Ltd.
Workspace operator: Meanwhile Space CIC
Awards: Architizer+ Awards 2021, Architecture + Colour, finalist Architizer+ Awards 2021, Architecture + Community, finalist New London Architecture Awards 2021, Meanwhile, shortlist New London Architecture Awards 2021, Structural Timber Awards 2021, Retail + Leisure Category Winner, Community Prize Civic Trust Award 2022
Photos: Jan Kattein Architects, Diane Auckland