I luoghi del lavoro terziario sono cambiati profondamente nel corso della storia moderna, perseguendo la produttività dell’individuo. La nascita dell’ufficio aperto, all’inizio del secolo, venne mutuato direttamente dal taylorismo: l’ufficio fabbrica dove gli impiegati eseguivano il proprio lavoro come in catena di montaggio, controllati dall’alto. Con l’avvento delle strutture a grattacielo, sorsero i palazzi per uffici, con piani open space adattabili a qualsiasi tipologia aziendale, in zone direzionali concentrate nella città. L’insorgere della Sick Building Syndrome impose una revisione di queste impostazioni prettamente funzionalistiche, ponendo maggiore attenzione al lavoratore e non al lavoro. Nel dopoguerra, l’Action Office, disegnato da Robert Prospt negli anni ’60, e il Landscape Office (Boureaulandshaft), sperimentato nel Nord Europa negli anni ’50, modificarono la progettazione degli spazi lavorativi cercando di ovviare al disagio di uno spazio troppo aperto e incoraggiando l’interrelazione tra piccoli gruppi di dipendenti. Nel corso degli anni ‘70 e ‘80 la progettazione dello spazio modulare, pensato per l’ottimizzazione produttiva dell’individuo, degenerò nell’incubotico isolazionismo del cubicolo. L’avvento e la diffusione della tecnologia informatica modificarono nuovamente il modo di concepire lo spazio di lavoro d’ufficio. Con l’arrivo del computer e della rete internet diffusa, gli spazi lavorativi si contraggono (downsizing) e i dipendenti vengono “liberati” dalla postazione fissa. Le prime concrete soluzioni dello sfruttamento della tecnologia furono il telelavoro e l’home working. I palazzi per uffici cominciarono a diventare obsoleti e i centri direzionali a svuotarsi. Negli anni ’90 Jay Chiat, presidente di un colosso pubblicitario americano, impose alle sue sedi di Los Angeles e New York la smaterializzazione del luogo di lavoro. L’“ufficio virtuale” poteva essere ovunque nello spazio e nel tempo (nessuna postazione fissa, nessun orario di lavoro, nessun luogo dove prendere un caffè). Anche il “non luogo” lavorativo non funzionò, poiché, senza uno spazio fisico dove stare, non è possibile costruire relazioni interpersonali, fondamentali per la produttività e la creatività; ogni individuo era isolato e alienato come quando rinchiuso in un cubicolo o perduto nella moltitudine di un open space. La tecnologia avanzata (Wi-Fi, 4G) ha permesso la nascita di una cultura d’impresa agile e iperattiva, dove le necessità di spazi fluidi, la condivisione delle risorse e il confronto tra competenze differenti sono la base del lavoro creativo che la contraddistingue.
Di conseguenza, l’architettura si trova oggi a dover rispondere a una domanda di tipologia di spazio in grado di soddisfare questa nuova/antica esigenza: l’interazione tra i lavoratori. Second Home nasce come “un nuovo tipo di spazio di lavoro e hub creativo”, dove le imprese, dopo la start-up iniziale, possano espandersi e contrarsi in base alle proprie esigenze, incontrarsi e fare uso delle conoscenze e delle reti degli altri, come i membri di uno stesso club, piuttosto che affittuari di uno spazio uffici condiviso. La sede Second Home si trova a Londra, in una ex fabbrica di tappeti degli anni ’70, fuori Brick Lane, lontano dalla City. A dare forma a questa nuova visione del coworking è stato chiamato il gruppo spagnolo SelgasCano. L’idea degli architetti è di collegare tutte le aree di lavoro con una continua relazione visiva, in verticale con doppie altezze, in orizzontale con partizioni trasparenti, che permettano allo sguardo di spaziare per tutta la profondità dell’edificio. La geometria del progetto è basata sulle forme curve per creare spazi di comunicazione continui e piacevoli al passaggio, ma la totale apertura è necessariamente un’illusione, un effetto visivo accompagnato dalla separazione acustica delle singole aree di lavoro, come risulta ben chiaro dall’analisi delle piante. La percezione di uno spazio condiviso e accogliente è, dunque, il frutto di un lavoro non solo sull’impianto distributivo, ma anche di un raffinato ragionamento su materiali, design, colori e sul verde. In accordo con l’idea dei committenti, sono stati eliminati tutti gli elementi di arredo tipici degli uffici: distributori di acqua, angolo cottura, microonde ecc. Gli spazi di incontro sono il caffè, il “giardino pensile”, nella cui doppia altezza sono appese piante coltivate in condizioni idroponiche (coltivazione fuori suolo), la sala riunioni centrale, con tavolo che può salire nel vuoto superiore e lasciare lo spazio libero per altre attività, quali conferenze, proiezioni di film e musica dal vivo o anche lezioni di yoga.
Pure l’arredamento è volutamente non uniforme: la varietà è celebrata da 600 tipi di sedie e lampade, pezzi d’epoca provenienti da tutta Europa, che danno a questo spazio il senso di un grande caffè piuttosto che di un ufficio. La vegetazione è presente in tutto l’edificio, con particolare attenzione alle sale riunione e alle zone di lavoro. La tipologia di verde, però, non è quella che ci si aspetta di incontrare in un ufficio. Circa un migliaio di piante in vaso crescono senza terriccio e sono disposte lungo le pareti curve per schermare leggermente i diaframmi trasparenti che dividono gli spazi di lavoro; le piante da davanzale contribuiscono alla percezione di uno spazio più domestico e informale. Anche le sensazioni tattili dei materiali sono gestite con sapienza da SelgasCano per perseguire la propria idea di spazio di lavoro informale, mai eccessivo, ma giocoso: colori caldi (giallo, arancio), rivestimenti morbidi (tappeti di lana monocromi nei corridoi comuni), superfici lucide (pavimenti di resina gialla), elementi grezzi (pilastri di calcestruzzo armato esistenti lasciati a vista). Questa idea di spazio non è la prima e non sarà l’ultima elaborata per dare un luogo “rinnovato” al lavoro terziario; ciò che la distingue da molte altre realizzazioni è la convinzione che sia proprio l’architettura a dover dare la spinta perché si “inneschino” le interazioni tra gli individui, attraverso i volumi, le superfici e i colori.
TUNNEL A COLORI
Il tamponamento di mattoni a vista della facciata esistente viene sostituito per l’altezza di due piani con una pelle di plexiglass trasparente che, denudando la struttura a travi e pilastri di calcestruzzo armato e incurvandosi verso l’esterno, racchiude il caffè-ristorante. La zona di seduta principale, all’interno del tunnel, è descritta dagli architetti come una serra ed è disegnata come un elemento curvilineo continuo in doghe di legno verniciato in un vivace color arancio, che diventa panca di seduta, pavimento e bancone d’appoggio. Ispirato al River Cafè di Richard Rogers, il ristorante, aperto anche al pubblico, è inteso come un ampliamento delle aree di lavoro informale, dove i dipendenti sono incoraggiati a incontrarsi e condividere idee davanti a un caffè. Come tutto l’intervento, anche questo “tunnel arancione” è costruito in modo semplice. Grazie alla loro leggerezza, i pannelli di metacrilato sono agganciati alla facciata con un profilo di acciaio tassellato alla struttura esistente e sono sostenuti, per tutta la doppia altezza, da un sistema di montanti, curvati, e traversi di acciaio inox lasciati a vista. La parte inferiore ha una struttura principale di metallo, con montanti curvi, e una struttura secondaria con nervature di compensato, sagomate con taglio a controllo numerico per dare forma al rivestimento in doghe di legno douglas. Interposti tra la pelle esterna e quella interna sono posizionati strati di isolamento termico e il passaggio degli impianti di servizio.
TRASPARENZE FLUIDE
Curve trasparenti di materiale acrilico consentono sia la divisione degli ambienti interni che la visione completa dello spazio, in tutta la sua profondità. I pannelli di plexiglass sono stati presagomati in fabbrica, con tre diversi raggi di curvatura, e poi messi in opera secondo il disegno. Il materiale acrilico soddisfa perfettamente tutte le necessità del progetto: una buona duttilità per ottenere facilmente le curve desiderate, una perfetta trasparenza con un costo contenuto e un’ottima capacità fonoassorbente. Il sistema di fissaggio, come in tutti gli altri elementi di progetto, è molto semplice. Il giunto a terra è un profilo annegato nel massetto di finitura, in modo che il pannello trasparente sembri innestarsi direttamente nel pavimento; l’attacco sulle partizioni di arredo fisso è risolto con un telaio di legno così come l’aggancio al plafone. I giunti verticali sono siliconati. Questi sistemi di fissaggio permettono l’alto grado di tolleranza richiesto nell’uso dei pannelli acrilici. Per nascondere i servizi (tubazioni per la climatizzazione, cavi elettrici, ispezioni per la manutenzione) i progettisti hanno imposto un salto di quota tra il soffitto degli spazi di circolazione e i diversi studi. Il controsoffitto, in pannelli in fibra di legno verniciato in diversi colori, è più basso nelle zone comuni dove sono contenuti gli impianti; un diaframma di legno o di materiale acrilico a specchio risolve il salto di quota, mascherando il fissaggio dei pannelli di plexiglass; su questo elemento si trovano le bocchette di ventilazione di ispezione a servizio degli spazi lavorativi. Il controsoffitto delle zone studio è più alto anche per rendere più ampia la percezione dello spazio. All’interno di una gola nelle zone di lavoro sono stati inseriti corpi per l’illuminazione generale; la luce specifica per ogni lavoratore è invece affidata a decine di bellissime lampade da scrivania, tutte diverse tra loro.
Scheda progetto
Progettista: SelgasCano - José Selgas e Lucia Cano
Committente: Second Home
Periodo di costruzione: January – November 2014
Area: 2.400 mq
Costo: 1.700 e/mq
Localizzazione: London, UK
Collaboratori: Paolo Tringali, Víctor Jiménez, Bárbara Bardín, María Levene, Inés Olavarrieta
Architetto esecutivo: Jackson Coles
Progetto strutture: Tibbalds
Arredi interni: Selgascano
Direzione cantiere: OD Group
Impresa principale: OD Group, Tibbalds Planning and Urban Design Ltd Project Management: Jackson Coles
Photos: Iwan Baan